Piccolo è bello?

Workout Magazine - Studio Chiesa communication

Heritage al femminile: Workout magazine incontra Mariacristina Gherpelli, CEO di GHEPI S.r.l.

PMI: acronimo di Piccole Medie Imprese, cioè quelle imprese che hanno un numero di addetti tra i 10 e i 249 e un fatturato annuo inferiore ai 50 milioni. Unite alle microimprese, il cui numero di addetti è invece inferiore a 10, rappresentano l’ossatura dell’economia italiana, circa il 99% delle nostre imprese. Dopo tanti anni di una silenziosa ma fattiva presenza, è relativamente da poco tempo che i riflettori degli studi di settore e dei media nazionali si sono accesi su di loro: sono aziende nella stragrande maggioranza famigliari, sono maggiormente localizzate al Nord, assorbono circa il 76,5% della popolazione lavorativa e contribuiscono in modo significativo al PIL nazionale (64%), sono attente ai temi della sostenibilità (anche se a volte lente nelle azioni in questo campo). Poi però soffrono di più di una debolezza, nella digitalizzazione innanzitutto (nonostante il quadro anno dopo anno migliori), molte traccheggiano nel passaggio generazionale, nell’ingresso di manager dall’esterno, negli investimenti rivolti all’innovazione. Per ognuna di queste voci c’è un numero, un diagramma, una tabella che nell’insieme concorrono a delineare un quadro dal quale però resta fuori un elemento difficilmente misurabile: il fattore umano.

Sì, perché nelle PMI la figura del manager che esegue freddamente quel che ritiene sia il bene dell’azienda, senza guardare in faccia a nessuno, non esiste. C’è sempre una radicazione nel territorio, ci si conosce per nome tra titolari e collaboratori, i figli spesso frequentano le stesse scuole o le stesse attività extrascolastiche, ogni decisione da prendere è misurata anche sull’impatto diretto che avrà sulle persone che dell’azienda o della comunità fanno parte e quando le situazioni diventano difficili il «buon nome» dell’imprenditore diventa garanzia del buon operare. Essere piccoli significa anche questo. Troppo melenso? Parlando con i titolari di tante imprese è proprio così, anche se c’è spesso una ritrosia pudica a raccontarsi. Mariacristina Gherpelli, CEO di GHEPI S.r.l., non fa eccezione: più di una volta la vedrò esitante nel rievocare determinate scelte, quasi che parlarne sia farsene un vanto. A un certo punto mi dirà: «Questa cosa non so se mi piacerebbe vederla scritta»: io comunque ci provo.

La sede di GHEPI, a Cavriago (RE).

GHEPI Srl: azienda di Cavriago, paese reggiano di meno di diecimila anime, la cui area industriale – Corte Tegge — è la seconda per importanza della provincia. Già la storia di questo comune alle porte di Reggio Emilia meriterebbe una narrazione a se stante tanto è intessuta di eventi storici drammatici e altri semplicemente curiosi (by the way, per gli amanti del genere, Cavriago ha dato i natali a Orietta Berti), ma resto concentrata su GHEPI, 53 dipendenti ripartiti a metà, quasi matematicamente, in 27 donne e 26 uomini, 8 milioni di fatturato nel 2024, un’attività focalizzata sulla progettazione e la produzione di componenti meccanici di precisione e articoli estetici per molti settori industriali attraverso lo stampaggio a iniezione di materiali polimerici: «Le fasi di R&D e progettazione le gestiamo internamente così come, nel 99% dei casi, lo stampaggio, mentre la costruzione degli stampi da una quindicina di anni è realizzata presso fornitori esterni, in Italia ma soprattutto in Cina».

Uno degli eventi organizzati da GHEPI per i clienti.

La scelta di delocalizzare questa fase di produzione non è stata presa a cuor leggero e, a dire la verità, nemmeno rientrava, ai tempi, nei piani strategici di GHEPI: «Diciamo che agli inizi degli anni 2000 abbiamo ricevuto una forte spinta in tal senso dai nostri clienti – soprattutto da uno che era e resta per noi molto importante – che vedevano nella costruzione degli stampi in Cina un vantaggio economico. Questo nel tempo si è ridotto, però rimane un beneficio enorme sul fronte della gestione dei progetti perché le aziende cinesi che lavorano nel campo che ci interessa sono mediamente molto più grandi di quelle rimaste in Italia dopo la crisi del 2008-2009 e con loro si riescono a ottenere anche 15-20 stampi alla volta in pochissime settimane e da un solo fornitore. In Italia per gestire una simile mole di lavoro bisognerebbe ripartire la commessa su enne fornitori e ci vorrebbero mesi e mesi di sviluppo». Però dal punto di vista psicologico, confessa Mariacristina, è stato un momento faticoso: «Non vorrei usare la parola nazionalismo, ma avremmo preferito continuare ad alimentare i nostri fornitori italiani. Tuttavia per onestà devo dire che, facendo una comparazione con la media delle realtà industriali che abbiamo qui in Nord Italia, le tecnologie più avanzate le ho viste presso quelle cinesi. D’altronde mi risulta che il governo cinese sovvenzioni fortemente le imprese, e questo è un grande aiuto. Ma resta il fatto che sono anche molto veloci e strutturate in termini di project management». A me resta invece una perplessità: l’approccio che potrei definire ricattatorio che spesso le grandi aziende hanno nei confronti dei loro piccoli fornitori, ma questo è, è il business, bellezza.

Icon. Nel cerchio di un’idea dell’artista modenese Alice Padovani, è stata realizzata in occasione del 50° anniversario di GHEPI.

Presa la decisione il passo successivo è stata una scrematura dei possibili interlocutori: «In Cina ai tempi c’erano anche aziende con le macchine appoggiate sulla terra battuta. Noi abbiamo voluto verificare le situazioni di persona, andando sul posto, non dico che abbiamo chiesto di vedere i contratti di lavoro che applicavano, ma abbiamo comunque cercato di capire il più possibile quali fossero i loro sistemi di gestione, anche relativamente ai dipendenti. Abbiamo escluso le aziende che praticavano prezzi troppi bassi pur trovandoci nella necessità di raggiungere quell’equilibrio che ci avrebbe consentito di restare competitivi agli occhi di chi ci aveva posto l’aut-aut tra il lavorare con fornitori cinesi o rinunciare alle loro commesse. Abbiamo puntato su aziende che frequentavano le fiere internazionali e che perciò contavano tra i loro clienti le principali case d’auto americane o europee, quelle che potevano dimostrare di avere ambienti di lavoro di standard elevato. Grazie all’attenzione a tutti questi fattori ci siamo creati un pool di partner con alcuni dei quali lavoriamo ancora oggi, mentre con altri il rapporto si è interrotto sia perché la qualità del loro lavoro non si è mantenuta al livello che ci serviva sia perché le relazioni non erano così buone. No, non è stato facile».

Perfezione, difetto zero sono le due parole d’ordine che regnano nel campo di GHEPI. Mariacristina ci porta l’esempio di Tetra Pak, con cui la sua azienda ha collaborato per una quindicina d’anni producendo i sistemi di chiusura dei brick: «Lì sono richiesti stampi che garantiscano una produzione continua, che non facciano insorgere rischi di fermi produttivi ed è proprio per questo motivo che l’azienda non bada a spese nella loro costruzione. Hanno una competenza elevatissima e ti spingono a cercare sempre le soluzioni più avanzate in nome proprio di quella perfezione di cui parlavo. Lo stesso accade con alcuni clienti per cui produciamo articoli nei quali l’estetica è importante, come per esempio i lettori di codici a barre: non importa se dopo poche ore di utilizzo l’oggetto magari è già graffiato, al momento della consegna non viene tollerato alcun difetto». Mi sembra di percepire nella voce di Mariacristina un certo orgoglio per la capacità di far fronte a richieste così sfidanti, così come leggo una nota di frustrazione irritata quando racconta di clienti, potenziali e non, che non hanno competenze specifiche, non conoscono la tecnologia dello stampaggio a iniezione e la sottovalutano e quindi guardano sostanzialmente solo al prezzo o quasi: «Succede poi di incontrare clienti che lamentano criticità di fornitura e di qualità con i loro fornitori – continua Mariacristina – e, al momento di proporre le nostre soluzioni, di scoprire che hanno acquistato stampi a prezzi irrisori. Sono casi in cui preferiamo rifiutare la commessa in quanto non riteniamo professionale questo genere di collaborazioni». «Avvilimento» è la parola che usa Mariacristina che è ben conscia di quanta attenzione richiedano i suoi prodotti, tanto più che il tratto distintivo dell’attività di GHEPI è il metal replacement, la sostituzione dei metalli con polimeri ad alte prestazioni, che richiede «a monte una vera e propria ricerca e sviluppo, non solo progettazione, perché devi individuare anche i giusti materiali da utilizzare per andare incontro ai requisiti di prodotto che il cliente esige. Questo è un ambito che ci appassiona e nel quale i clienti ottengono spesso risultati che non si aspettavano».

Metal Replacement.

Il mercato a cui GHEPI si rivolge è essenzialmente quello nazionale con una quota di export che si aggira intorno al 20%. Invece i settori sono tantissimi e molto diversi tra loro: «È stata una scelta già dei miei genitori ma che abbiamo deciso di mantenere trasformandola anzi in un nostro tratto caratteristico. Addirittura potrei dire che è strategica perché avvicinarsi a un settore nuovo ti consente ogni volta di conoscere aspetti e soluzioni che entrano in un know how applicabile successivamente, in modo innovativo, in settori differenti». E tra questi troviamo al primo posto per numerosità i produttori di macchine per packaging, che si tratti del confezionamento delle bustine di tè e tisane oppure di quello delle vaschette per gli alimenti dei supermercati oppure ancora delle sigarette. Ma nel palmarès dei clienti troviamo anche nomi importanti nell’ambito delle macchine per il giardinaggio, dei macchinari da palestra, del trattamento delle acque reflue, dei lettori di codici a barre, della meccatronica.

La storia di GHEPI comincia nel 1972 quando Nemesio Gherpelli e Maria Gabriella Pinotti, marito e moglie, decidono di unire le loro forze e i loro sogni per creare un’impresa che viene battezzata con la prima sillaba dei loro cognomi: la forza di un legame estrinsecata nella scelta del nome. Fino a quel momento Nemesio ha lavorato nel campo delle automazioni, dello stampaggio a iniezione e della costruzione degli stampi, Maria Gabriella invece fa la magliaia, entrambi con una sapienza artigiana, una capacità «del fare», coniugata al desiderio di concretizzare una visione tant’è che avevano frequentato, ancora prima di fondare l’azienda, una sorta di corso di gestione amministrativa. La spinta definitiva viene da un dissapore tra Nemesio e il suo datore di lavoro, non così grave a detta di Mariacristina, ma tale da indurlo a fare quel passo di cui evidentemente da tanto tempo aveva voglia. Tanto più che le molte aziende che lo conoscevano come dipendente e ne apprezzavano le capacità gli avevano promesso del lavoro nello stesso campo in cui la GHEPI di oggi opera, cioè la sostituzione di componenti in metallo con equivalenti in polimeri più tecnici.

Foto della famiglia Gherpelli: da sinistra a destra, Elisabetta, Angela, Mariacristina, Nemesio con la moglie Maria Gabriella.

Nemesio e Maria Gabriella sono, più che complementari, perfettamente in sintonia: lui tutto innovazione – «ha sempre voluto tecnologie all’avanguardia non solo per una maggiore qualità della produzione, ma anche perché, a suo parere, le persone lavorano più volentieri su macchinari innovativi che non su quelli obsoleti» ricorda Mariacristina – e formazione «per curare la crescita professionale dei collaboratori e motivarli»; lei, che nella neonata azienda si occupa dell’amministrazione, attenta al lato umano nelle politiche gestionali e a tutti quegli aspetti che contribuiscono a fare del luogo di lavoro un ambiente dove si sta bene, dove c’è rispetto per gli altri e dove c’è un’attenzione ante litteram per la sostenibilità («era allergica agli sprechi, ove possibile recuperava gli scarti di produzione e cercava di riciclare»). E come genitori? «Molto attenti e premurosi. Hanno vissuto sempre e solo per la famiglia e l’azienda tant’è che tra noi tre sorelle ci dicevamo sorridendo che ne esisteva una quarta: la GHEPI». GHEPI che ingrana subito bene tant’è che già nel 1979 viene costruito un capannone più grande e poi nel 2000, sempre per potersi ampliare, ci sarà un ulteriore trasferimento nell’attuale sede.

Nel 2009 la tempesta perfetta. Alla crisi internazionale scatenata dallo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti e dal fallimento della Lehmann Brothers e alle sue ripercussioni anche sulla manifattura italiana si unisce un evento che, per quanto annunciato – «con grande correttezza» sottolinea Mariacristina – già da un paio d’anni, ha ripercussioni pesantissime per GHEPI: il loro cliente più importante, Tetra Pak, li lascia. «Questa uscita era frutto di una scelta strategica internazionale: l’azienda aveva deciso di spostare le produzioni dei sistemi di chiusura nei Paesi di destinazione dei suoi prodotti, mentre fino a quel momento la produzione era concentrata esclusivamente in Italia. Le conseguenze sono ricadute non solo su di noi, ma su tutti i fornitori, però per GHEPI Tetra Pak valeva il 30% del fatturato. Se sommiamo questo valore al -20% dovuto alla crisi globale si arriva alla perdita secca della metà del fatturato senza contare che la quota di Tetra Pak nel nostro portafoglio era quella con la marginalità più alta perché gli stampi non venivano mai smontati, era una produzione che, diciamo, “andava da sola”».

Le studentesse di Ingegneria e Design Industriale che hanno partecipato all’Hackathon organizzato in occasione del 50° di GHEPI: un concorso al femminile per elaborare idee e proposte legate ai temi della produzione sostenibile.

Mariacristina già lavorava da una ventina d’anni in GHEPI e ricorda bene l’angoscia di quel periodo, che traspare ancora adesso nel suo racconto: «Noi avevamo investito tutto nell’azienda, non avevamo mai prelevato utili, per quella commistione azienda-famiglia che è stata, oggi credo, un errore imprenditoriale ma che, come tante altre piccole imprese, perseguivamo senza esitazioni. Era la vigilia di Natale del 2009 quando i nostri consulenti ci hanno consigliato di aprire un concordato preventivo. Lo abbiamo rifiutato: perché la nostra crisi avrebbe dovuto ricadere sui nostri fornitori? Conoscevamo bene la procedura perché avevamo già dovuto assorbire 5-6 concordati di nostri clienti che avevano aggravato la nostra condizione. I consulenti erano allibiti: ci hanno esposto la gravità della situazione spiegandoci che a partire dal 1° gennaio tutti avrebbero conosciuto il nostro stato e noi non avremmo potuto far fronte alle richieste di rientro da parte delle banche, sarebbe stata la nostra fine. Ironia della sorte, ci ha salvati proprio una banca: il Banco S. Geminiano e S. Prospero di Reggio Emilia. Ci eravamo rivolti alle nostre banche esponendo in modo totalmente trasparente le nostre difficoltà, ma si rimpallavano la decisione di venirci incontro. Tutte tranne loro, che erano una banca del territorio con un forte imprinting etico. Bene, ricordo ancora – e ancora mi emoziono – quando il loro direttore di area mi ha chiamato fuori dalla sala riunioni e mi ha detto: “Cristina, se una banca come la nostra non aiuta un’azienda come la vostra, cosa ci stiamo a fare?”».

Il premio Innovatori Responsabili vinto da GHEPI nel 2023 per il suo impegno nella valorizzazione delle donne e dei giovani.

Da lì comincia una faticosa e lenta risalita attraverso tre azioni: sviluppo commerciale «perché avevamo bisogno di recuperare fatturato», efficienza dei processi «per diminuire costi e ridurre sprechi» e istituzione del controllo di gestione che fino ad allora in azienda non c’era mai stato. Quindi happy end e «vissero tutti felici e contenti»? Niente affatto perché nel 2014, quando il peggio sembra ormai alle spalle, un’altra bufera si abbatte su GHEPI: «Attraverso un conoscente avevamo trovato un cliente, nel settore medicale, che sembrava poter addirittura sostituire Tetra Pak come apporto di fatturato. All’inizio la collaborazione è stata straordinaria e lo abbiamo aiutato a risollevarsi da un blocco produttivo che durava da mesi. Quando la sua situazione si era normalizzata, ha iniziato a contestare le forniture con modalità pretestuose e il risultato è stato una nuova fase difficile tra il 2014 e il 2015».

A cui si aggiunge un gravissimo lutto famigliare che colpisce Angela, una delle due sorelle di Mariacristina: «Lei era il nostro Responsabile Operations, e mio cognato era Responsabile di un reparto di produzione … vorrei tralasciare le ripercussioni psicologiche di quell’evento su tutti noi, ma si può forse immaginare cosa abbia significato per un’azienda come la nostra una tragedia di questa portata».

Ma anche da quella batosta GHEPI si risolleva, la resilienza, si sa, è un’altra delle caratteristiche delle PMI. Arriviamo così al 2018 e a un evento del tutto inatteso: «Siamo stati contattati da un consulente di JSP International. A essere sincera all’inizio pensavo a un errore perché in quel periodo leggevo, sì, di acquisizioni di PMI da parte di grandi gruppi, ma ero convinta che l’interesse fosse rivolto a quelle che avevano fatturati più importanti, almeno sui 20 milioni. Noi non ci eravamo ancora ripresi dalla crisi del 2015, eravamo sui 6 milioni. E JSP è una corporate multinazionale da 3000 dipendenti e un billion di fatturato, quotata alla Borsa di Tokyo. È vero che l’operazione è stata condotta per conto di JSP International, che è la loro filiale EMEA, ma il gruppo è quello… ci pareva impossibile che fossero interessati a noi e ancora prima che ci avessero trovati».
Invece era tutto vero: JSP cercava in varie aree d’Europa, fra cui l’Emilia-Romagna, una realtà che operasse nel campo dello stampaggio a iniezione delle materie plastiche, e tramite scouting, banche dati incrociate e altri strumenti di indagine erano arrivati alla GHEPI. O meglio, era stato individuato un gruppo di imprese nel quale GHEPI era risultata la migliore per tutta una serie di ragioni.

Siamo al clou: che cosa spinge un’azienda ormai in buona salute ad accondiscendere a un’acquisizione da parte di un grande gruppo? Mariacristina non ha esitazioni: «Una riflessione su come si sono evoluti i mercati in questi ultimi dieci anni e sulle prospettive di sviluppo futuro. La globalizzazione, le crescenti esigenze dei clienti e le sfide tecnologiche richiedono una tipologia di competenze e di risorse che una piccola impresa non è sempre in grado di assicurare, soprattutto con la marginalità del conto terzi. Per cui ci siamo chiesti: vogliamo provare a sopravvivere pur di mantenere la gestione nelle nostre mani o investiamo nel futuro anche se ciò comporta di affidare ad altri la nostra azienda per farla crescere? Di fronte a questi scenari abbiamo scelto di accogliere l’interesse manifestato da una multinazionale, convinti che consentirà uno sviluppo ulteriore, tanto più che JSP come primo passo ha investito nell’acquisto di un terreno, dietro alla nostra sede, che ne ha la medesima estensione e perciò potremo raddoppiare lo stabilimento».

Un robot collaborativo in azione in GHEPI.

Al momento JSP ha acquisito il 35 % delle quote, ma la previsione è che rilevino la maggioranza o addirittura il 100% di GHEPI. Non è stato facile farlo accettare a Nemesio e Maria Gabriella: «Ne hanno sofferto all’inizio. Si capisce, è la loro creatura. Però la loro creatura deve continuare in un contesto che non è più quello che hanno vissuto per buona parte della loro vita attiva e alla fine hanno capito, volendo il meglio per l’azienda, che in questo modo le si sarebbe garantito un futuro». E le persone che vi lavorano? «Diciamo che all’inizio c’è stata un po’ di preoccupazione, anzi c’è ancora. Però la cultura giapponese costruisce relazioni di lunga durata, è la prima cosa che JSP ci ha spiegato, non ha l’atteggiamento rapace di chi viene, realizza e poi fugge portandosi via il know how. E in questi primi anni di vicinanza e collaborazione, abbiamo sempre sentito da parte loro un grande rispetto, un estremo interesse e la volontà di ascoltare, capire e conoscere, con l’obiettivo di creare sinergie e nuove progettualità. Capisco che qualcuno possa avere dei dubbi, ma penso siano legati più all’incertezza su come si trasformerà il posto di lavoro che al timore di perderlo». E a proposito del territorio, che reazioni ci sono state da parte di comunità e istituzioni? «Devo dire di grande interesse e soddisfazione. Molte persone ci hanno fatto i complimenti per aver attirato l’attenzione di un socio così importante e la sindaca è contenta perché ci legge un apprezzamento per tutto quello che negli anni è stato costruito qui a Cavriago e, soprattutto, per le prospettive di sviluppo locale».

Quindi la morale di questa storia è che piccolo non è bello? «Non voglio dare un’impressione sbagliata. Bisogna distinguere tra gli aspetti umani delle PMI – che non sono smentibili perché la piccola dimensione porta a livelli di sensibilità e attenzione superiore alla media, che le grandi realtà industriali non possono minimamente permettersi per motivi organizzativi – e gli altri aspetti. Quando dico che piccolo non è più bello mi riferisco al tema della debolezza strutturale, cioè alle prospettive di oggi per riuscire non solo a sopravvivere, ma a dare all’azienda una continuità dignitosa, una redditività corretta, per poter fare investimenti, per potersi sviluppare. Forse sono influenzata dal fatto che noi, pur essendo una PMI e senza avere prodotti nostri, abbiamo sempre fatto molta attività di ricerca, di sviluppo, di innovazione perché era anche un modo per “respirare aria nuova”, per acquisire conoscenze, farci partecipare a progetti che ci facessero anche un po’ sognare oltre che mettere a frutto le nostre competenze. Però tutto questo diventa molto difficile se hai risorse limitate e quindi margini di manovra ristretti. Negli anni Settanta si è assistito al fenomeno dell’esternalizzazione delle forniture che da un iniziale decentramento di capacità produttiva, per gestire gli ordini in eccesso, si è evoluto in un decentramento di competenze, quando le aziende committenti hanno deciso di mantenere all’interno solo le linee di assemblaggio ed eventualmente alcuni processi produttivi speciali, delegando tutte le altre forniture a partner esterni. Nel settore delle materie plastiche, molto giovane rispetto a quello dei metalli, le competenze non sono ancora adeguatamente presenti e diffuse, per cui incontriamo spesso difficoltà nel far comprendere il valore di proposte e soluzioni avanzate rispetto a quelle che ci vengono sottoposte da alcuni clienti per confronto con altri competitor. A ciò si aggiunge la criticità fisiologica del conto terzi che, in Italia, è sovente un modo per ridurre i costi non riconoscendo le attività indirette di sviluppo dei progetti e dei servizi mentre all’estero sono considerate di primaria importanza».

Mariacristina è un fiume in piena, ma con lucida consapevolezza di ciò che dice: «Poi sì, è vero, che le piccole imprese sono l’ossatura del nostro sistema industriale, ma comunque credo sia un’ossatura fragile. Tanto che questa convinzione, unita ad un forte spirito di collaborazione, ci ha portati nel 2009 a dare vita al nostro primo progetto di rete di imprese, la forma contrattuale proposta da Confindustria proprio per superare il cosiddetto “nanismo” delle imprese italiane. La verità è che spesso noi piccoli imprenditori siamo un po’ individualisti, non siamo capaci di fare un passo indietro, di cedere del nostro per costruire qualcosa di più grande insieme agli altri e forse è anche per questo che in Italia abbiamo così tante piccole e micro imprese». È una visione molto severa, consolidata però da ben quattro esperienze negative di contratti di rete. Due di questi contratti si sono rapidamente dissolti perché o i campi su cui lavoravano erano troppo pionieristici oppure perché le differenze di dimensione e struttura tra i partecipanti rendevano impraticabile la collaborazione, ma gli altri due sono stati minati alla base proprio dall’atteggiamento denunciato da Mariacristina, il desiderio di qualcuno di prevalere sugli altri, l’assenza di una reale volontà di condivisione a favore del proprio interesse, la tendenza nepotistica di favorire gli amici e gli amici degli amici: «E allora, diciamo che anche la rete, quella che prevede la gestione integrata del business, se non un’utopia è comunque un obiettivo difficile da perseguire. È più semplice se ci si limita a condividere iniziative commerciali o di marketing come, per esempio, la partecipazione alle fiere, ma non è questo il senso della rete in cui noi credevamo».

Uno sguardo sul domani? «Essendo accreditati dal 2011 come Laboratorio di Ricerca della Rete Alta Tecnologia Emilia-Romagna, dopo l’esperienza dei contratti di rete abbiamo scelto di concentrarci sul nostro core business ampliando il network negli ambiti ricerca, sviluppo e innovazione, anche grazie all’adesione al Clust-ER Meccatronica e Motoristica. Così facendo, e grazie a uno staff di collaboratori molto qualificati, intendiamo offrire ai nostri clienti un servizio sempre più professionale introducendo anche nuove progettualità rivolte alla sostenibilità ambientale e all’economia circolare per ridurre l’impronta di carbonio dei nuovi prodotti grazie all’ecodesign con materiali avanzati, polimeri espansi, riciclati e biopolimeri. È questo un ambito di grande interesse anche per JSP e ritengo che sia un ottimo auspicio per il nostro futuro».

Workout Magazine – Studio Chiesa communication

Post correlati

Business di famiglia: Workout magazine incontra Tommaso Rossini, CEO di R.T.A. Srl e R.T.A. Robotics
Alla fine sempre a lui si torna, a quella straordinaria figura di imprenditore che fu Adriano Olivetti e alla sua rivoluzionaria visione di una fabbrica che «deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia»

 - 8 April 2025

Workout magazine incontra Miriam Olivi, Presidente dell’associazione Women in Plastics Italy
Donne nella plastica, anzi «nelle materie plastiche» per essere precisi, perché il termine – generico – raccoglie sotto di sé parecchi tipi diversi di polimeri che differiscono moltissimo per proprietà e caratteristiche

 - 26 March 2025

Le grandi storie dell’heritage: Workout magazine incontra Massimiliano Cacciavillani, CEO di Lovato Electric S.p.A.
Che poi significa, in parole povere, che «è quando le cose vanno bene che devi costruire un’impresa in grado di resistere nei momenti difficili.

 - 5 March 2025

Post correlati

Business di famiglia: Workout magazine incontra Tommaso Rossini, CEO di R.T.A. Srl e R.T.A. Robotics
Alla fine sempre a lui si torna, a quella straordinaria figura di imprenditore che fu Adriano Olivetti e alla sua rivoluzionaria visione di una fabbrica che «deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia»

 - 8 April 2025

Workout magazine incontra Miriam Olivi, Presidente dell’associazione Women in Plastics Italy
Donne nella plastica, anzi «nelle materie plastiche» per essere precisi, perché il termine – generico – raccoglie sotto di sé parecchi tipi diversi di polimeri che differiscono moltissimo per proprietà e caratteristiche

 - 26 March 2025

Le grandi storie dell’heritage: Workout magazine incontra Massimiliano Cacciavillani, CEO di Lovato Electric S.p.A.
Che poi significa, in parole povere, che «è quando le cose vanno bene che devi costruire un’impresa in grado di resistere nei momenti difficili.

 - 5 March 2025

Hai già letto la nostra newsletter?

Ogni mese proponiamo contenuti sempre aggiornati su branding, digital marketing, sostenibilità e cultura di impresa. Workout Magazine è molto più di una newsletter: è uno strumento per allenare la mente, arricchire il pensiero e dare forma a nuovi talenti.

"*" indicates required fields

Name