Heritage al femminile: Workout magazine incontra Carolina de Miranda di ORI Martin S.p.A.
Facile che il nome xkcd non vi dica nulla. Non è un acronimo né un simbolo chimico e nemmeno l’appellativo di qualche remoto corpo celeste: è invece il titolo di un webcomic creato da un tipo simpaticamente bizzarro, Randall Munroe, che si presenta così nel suo sito (ammetterete che sia abbastanza inquietante): «Mi sono laureato in fisica alla CNU (Christopher Newport University n.d.r.). Prima di dar vita a xkcd, lavoravo nel campo della robotica al NASA Langley Research Center in Virginia. Dal giugno 2007 vivo in Massachusetts. Nel tempo libero mi “arrampico” su oggetti e concetti, apro porte strane e frequento i goth club vestendomi come quelli della mia confraternita e sentendomi così terribilmente a disagio. Alle feste della confraternita faccio esattamente il contrario». Nel 2005 Randall ha cominciato a mettere in rete i suoi fumetti nei quali utilizza la matematica, la statistica e l’informatica per parlare della vita e della società con una buona dose di umorismo, ma anche, non di rado, in modo graffiante.
Bene, qualche anno fa circolava su Internet una sua vignetta, un grafico cartesiano che analizzava la frequenza di utilizzo dell’aggettivo «sostenibile» nei testi in lingua inglese, espressa in percentuale sulla globalità delle parole. Si partiva dal 1960, si arrivava ai giorni nostri e si ipotizzava lo stesso andamento incrementale per il futuro. Così costruito, il grafico mostra che nel 2036 l’aggettivo comparirà in media una volta a pagina, nel 2061 una volta per frase per arrivare al 2109 in cui l’inglese sarà costituito dal solo aggettivo «sostenibile» ripetuto più e più volte.
È un paradosso naturalmente, ma interrogatevi: vi ha fatto più ridere o più riflettere? Se la vostra reazione è del secondo tipo, vi voglio fornire un altro dato interessante. 2020: nel mondo in piena pandemia di Covid, con i media praticamente incentrati solo su questo tema, la parola «sostenibilità», secondo il Global Language Monitor (una società americana che analizza i trend nella lingua inglese), occupava il decimo posto nel ranking delle parole più usate al mondo quell’anno. Niente male no?
Oggi la parola pare essere retrocessa di qualche posizione, ma è indiscutibile che delle tematiche ESG (Environmental, Social, Governance) che esprimono l’impegno in termini di «sostenibilità» di un’impresa o di un’organizzazione si parla ormai moltissimo e che esse sono oggetto di un’attenzione crescente da parte delle aziende che sanno che il raggiungimento di taluni obiettivi si può tradurre in un vantaggio competitivo o che, viceversa, la povertà di visione in questi campi, può determinare un rifiuto più o meno marcato da parte del mercato. Senza contare che dal 2025 il bilancio di sostenibilità diventerà obbligatorio per le grandi imprese e questa imposizione si estenderà successivamente anche alle PMI quotate.
Volete ulteriori evidenze? Si possono trarre dal Global ESG Monitor 2023 di Sec Newgate, gruppo globale di comunicazione strategica. Il 53% del campione intervistato (circa 12.000 persone sparse su 12 Paesi del mondo) si dichiara a conoscenza e interessato alle tematiche ESG con il 67% di esso che posiziona il proprio coinvolgimento al settimo posto in un ranking da 1 a 10 (l’incremento è dell’11% rispetto al 2022), il che impatta inevitabilmente su una serie di scelte individuali, da ciò che si mangia alla tipologia e al brand dei prodotti acquistati e addirittura all’impresa per cui si accetta di lavorare. Non solo: il 77% ritiene che per le aziende sia importante agire in questi campi e il 45% dichiara che si aspetta di pagare di più un prodotto di quelle imprese che hanno più forti performance in campo ESG (affermazione interessante ma ambigua: quelle persone se l’aspettano e perciò l’accetterebbero di buon grado oppure l’affermazione va a braccetto con una buona dose di rassegnazione? Non è dato saperlo), fermo restando che la componente principale di quest’ultimo gruppo è rappresentata dai Millennials e dalla GenZ e comunque è caratterizzata da un titolo di studio più alto.
Quelli citati sono solo alcuni punti di una ricerca che evidenzia bene quanto sia importante per un’impresa non solo pensare in termini globali all’impatto delle proprie azioni sul nostro pianeta (per esempio alla decarbonizzazione) ma anche essere allineata ai valori e ai bisogni, in termini di sostenibilità, della comunità locale la cui prossimità implica una valutazione e un giudizio continui nel tempo. Questo è il motivo del sempre più frequente ricorso da parte delle aziende a figure come il Sustainability Manager il cui compito è proprio quello di fare da ponte tra l’ovvia ricerca del profitto e l’adesione a modelli di comportamento che tengano conto dell’impatto sociale ambientale dell’impresa a 360 gradi.
È il ruolo di Carolina de Miranda, quarta generazione di ORI MARTIN, colosso bresciano degli acciai speciali che comprende 11 aziende, ha nel suo organico 1.200 dipendenti con un fatturato di 650 milioni di euro e nelle sue molteplici iniziative a favore del territorio ha messo le persone al centro: «È il nostro “cuor business” – dice Carolina – ma è naturale perché noi abbiamo qui le nostre radici, siamo legati a questa terra, non siamo un’azienda di servizi nata cinque anni fa a Londra, abbiamo una storia che conta ormai novant’anni e nella quale la nostra famiglia ha sempre guardato non solo all’azienda, ma anche a quello che la circonda».
Cominciamo dal nome. Che si pronuncia Martèn perché non è veneto, è francese o meglio belga: Oger Martin, fondatore dell’azienda nonché bisnonno di Carolina, era infatti di Liegi. Ingegnere, nel 1911 arriva a Brescia a ventun anni con l’incarico, da parte dell’azienda meccanica per cui lavora, di esplorare il mercato italiano. Qui si fermerà: conosce Lorenzo Ferretti e con lui fonda la Ferretti&Martin, che con una quindicina di operai fabbrica attrezzi agricoli a partire dal ferro recuperato da rotaie in disuso. Un’attività poco più che artigianale, che per la produzione si avvale di un maglio alimentato dal fiume Grande. Nel 1940, con il Paese appena entrato in guerra, il grande salto: i due soci rilevano fabbrica e marchio della O.R.I. (Officine Riunite Italiane) che a sua volta era nata agli inizi del Novecento dalla fusione tra le ditte «Ceschina, Busi e C.» e «Ing. Conti e C.». La O.R.I. a suo tempo realizzava turbine, ma non solo, anche presse, pompe, magli, macchine per pastifici e mulini (soprattutto quest’ultimo segmento era prospero nel settore delle esportazioni), occupava un gigantesco stabilimento che all’epoca era all’avanguardia per attrezzature e capacità di far fronte alle commesse più impegnative e aveva nello stesso Giovanni Conti, classica figura di imprenditore ottocentesco dedito anche all’associazionismo, il direttore amministrativo. Come spesso accade è la casualità, questa volta tragica, a cambiare il corso degli eventi. L’unico figlio di Conti, che nella mente del padre avrebbe dovuto succedergli alla guida dell’azienda, muore subito dopo la laurea in un incidente e questo sarà per la O.R.I. l’inizio di una parabola discendente che sfocerà nella sua messa in liquidazione nel 1930. Dieci anni dopo l’acquisto da parte di Oger Martin e Lorenzo Ferretti che vi installano un piccolo laminatoio e passata ancora una decade l’impianto del primo E.A.F., il forno elettrico ad arco, che aprirà la porta alla produzione dell’acciaio a partire dal rottame, ciò che è rimasto nel DNA di ORI Martin ancora oggi. Il volano è la ricostruzione post bellica che fa decollare la richiesta di tondino per cemento armato e che porterà l’azienda a ingrandirsi progressivamente, a dotarsi di forni elettrici sempre più performanti, della colata continua nel 1965 e a cambiare a poco a poco i propri prodotti che oggi sono gli acciai speciali destinati essenzialmente ai settori automotive e ferroviario.
Una crescita impetuosa che non è stata merito solo dell’intelligenza imprenditoriale di Oger Martin, scomparso nel 1961. L’azienda non sarebbe quella che oggi è senza la figura del primo (in ordine di tempo) genero, Roberto de Miranda, nato a Napoli, carabiniere di stanza a Brescia dove conosce e sposa Camille Martin, la maggiore delle tre figlie di Oger. Carolina lo ricorda così: «Diceva sempre che pur essendo del Sud e senza nulla togliere alla gente di là si sentiva più bresciano per la voglia di lavorare che lo animava, quella che lo faceva alzare presto la mattina impaziente di venire in fabbrica dove conosceva tutti per nome, figli degli operai inclusi, e dove salutava tutti. Aveva una scorza ruvida, ma gli veniva riconosciuta una grandissima generosità che è poi quella passata a mio padre. Sono orgogliosa di essere sua nipote. Il mio più grande dispiacere è che oggi, con le dimensioni che il Gruppo ha, non è più possibile avere quella conoscenza diretta dei dipendenti che aveva invece lui».
Un altro genero di Oger Martin entrerà poi in azienda: è Walter Magri, giovane medico di Desenzano che Leontine, la seconda delle tre sorelle Martin, ha conosciuto da sfollata sul lago di Garda durante la guerra e che, alla morte del suocero, deciderà di lasciare la professione per abbracciare l’attività di famiglia.
Dunque in ORI Martin coesistono due rami parenti intrecciati, con grande affetto reciproco, ma, come talvolta accade in queste imprese «dinastiche», anche con rischio di tensioni. «È per questo motivo che il CEO è oggi un esterno alla famiglia – spiega Carolina – è stata una scelta che facilita le decisioni e lima gli eventuali attriti». Chissà se non sia stato anche il pensiero di entrare in una compagine aziendale che avrebbe potuto diventare ingombrante a spingere il padre di Carolina, Uggero de Miranda, a lavorare a lungo fuori da ORI Martin: «Papà è stato ingegnere chimico in ASM fino a quando non sono nata io. Poi ha deciso di provare la realtà di famiglia: forte della sua esperienza ha iniziato occupandosi di tutto il settore dell’energia e oggi, oltre a essere Presidente, è anche Direttore R&D ed Energia quindi è ancora una figura operativa».
Uggero e Carolina, un rapporto padre-figlia intenso e affettuoso che non esclude però frizioni: «Diciamo che abbiamo due caratteri e due approcci diversi per cui, soprattutto all’inizio, ci scontravamo molto. Ma con il tempo e con l’acquisizione di una maggior sicurezza da parte mia, le cose sono andate migliorando e oggi lui è il mio punto di riferimento soprattutto su alcuni temi, per esempio quelli legati all’ambiente, dove avverto più forte in me l’assenza di un background tecnico. Senza di lui su tante cose mi sentirei persa».
Proprio un certo senso di insicurezza ha contrassegnato Carolina da giovanissima: «Avevo fatto il liceo classico, ero una secchiona incredibile e amavo le lettere antiche per cui quando è arrivato il momento di scegliere la facoltà a cui iscrivermi, mi sembrava naturale seguire quel filone. Anche l’economia era un argomento che mi interessava, ma me ne sentivo spaventata. C’entrava anche il fatto di avere due fratelli più grandi di me che hanno entrambi studiato in quel campo e che io percepivo così bravi e preparati che mi dicevo che non sarei mai stata alla loro altezza. Sono stati loro a incoraggiarmi a provare almeno il test di ammissione alla Bocconi: l’ho superato brillantemente e a quel punto mi si è aperto un mondo: cinque anni meravigliosi in cui ho fatto anche molte esperienze all’estero, a Londra, Dubai, Los Angeles, Hong Kong aggiungendo ogni volta un tassello alla costruzione della mia persona».
Carolina si laurea e come nell’allora migliore tradizione delle «fanciulle in fiore» bocconiane entra nel campo della moda. Un paio d’anni, giusto il tempo di capire che non fa per lei che desidera piuttosto un settore con più sfumature e opportunità: si licenzia e va in EY, «dove – racconta ridendo – mi hanno uccisa di lavoro». È un periodo di grande crescita per Carolina, è messa sotto una continua pressione, ma questo le fa tirare fuori il meglio di sé, lavora fino all’una di notte, ma impara tantissimo e in tantissimi campi, dal manifatturiero all’energia, in un ambiente giovane, dinamico, grintoso, a sua misura.
In lei però stanno nascendo esigenze diverse a cui risponde con una scelta che le cambierà la vita: si iscrive all’MBA della Bocconi e vista l’impossibilità di conciliare un’attività così fagocitante come quella in EY con la preparazione per l’ammissione, concepisce l’idea di lasciare l’agenzia e di entrare per qualche mese nell’azienda di famiglia, «in quel momento mi sentivo pronta a capire se mi sarebbe piaciuto lavorare lì». La prima sensazione è di panico, per usare le sue stesse parole, tutto è diverso, a partire dall’ambiente: in EY era una ragazza come tante, qui è un’azionista, le persone le si rivolgono con una cortesia formale che rasenta la deferenza e che la mette a disagio. Lavora un po’ nel controllo di gestione, poi passa al commerciale e infine il padre le propone di occuparsi del bilancio di sostenibilità: «era il 2019, prima non era mai stato fatto e anche per me si trattava di un’esperienza completamente nuova, ma mi sono bastate poche settimane per innamorarmi follemente di queste tematiche». Così, finito l’MBA, Carolina non ha più dubbi: nel suo futuro ci saranno ORI Martin e la sostenibilità.
Il 2019 resterà un anno memorabile per Carolina anche per un altro motivo: conosce l’uomo che diventerà suo marito. E adesso che è diventata mamma felice dice che la scelta di entrare nell’impresa di famiglia e quella di sposarsi sono state le decisioni più importanti della sua vita, quelle che l’hanno portata a essere la donna realizzata di oggi.
Parlandole si capisce subito che la responsabilità sociale è quella più vicina alla sua indole carica di positività e di entusiasmo, gli stessi sentimenti che cerca di trasmettere agli altri: «La valorizzazione delle persone è per me la chiave di tutto. Valorizzazione e attenzione nei loro confronti. Questo si traduce innanzitutto in formazione, diretta a tutti i dipendenti, pagata e svolta in orario di lavoro, perché lo sviluppo delle competenze significa crescita virtuosa del business». 29 ore pro capite su temi sia tradizionali, ambiente, sicurezza, energia, qualità, sia più «emergenti» come le soft skills che sempre più sono oggetto di attenzione in tutto il mondo del lavoro. E se pensate sia cosa facile, immaginate che significa in termini di impegno organizzare corsi per più di mille persone (ogni sessione accoglie non più di venti partecipanti), distribuite in sedi diverse e su orari differenti…
In più, spiega Carolina, «abbiamo iniziato da poco un percorso di coaching individuale, rivolto ai responsabili e a quelle persone sulla cui crescita, non solo professionale, ma anche personale, l’azienda vuole investire». Di questi processi fa parte la valutazione periodica delle performance, che non è affatto il momento in cui si «danno i voti» ma è l’occasione per fare il punto della situazione su e con ciascuno, per individuarne i punti forti, eventualmente da potenziare, e gli eventuali punti deboli per trovare congiuntamente soluzioni migliorative. Ed è anche l’opportunità per capire cosa il dipendente si aspetta per il futuro, qual è nella sua testa il suo next step, in un dialogo franco e costruttivo.
I corsi di formazione non sono sempre e solo diretti ai dipendenti: alcuni sono aperti anche ai loro famigliari e trattano temi quali le vecchie e nuove dipendenze oppure l’approccio al mondo giovanile e ai suoi disagi allargando così il concetto di elargizione di conoscenza alla comunità. E sempre in questo filone si inscrivono i momenti informativi su argomenti legati alla salute: «Per esempio di recente abbiamo ospitato un ricercatore dell’AIRC che è venuto a parlare di prevenzione dei tumori». Né, per quanto concerne la salute, ci si ferma qua perché l’azienda offre visite gratuite per la prevenzione dei melanomi, in aumento in Italia. E poi l’attenzione per il cibo. La buona salute comincia dal piatto, è un detto comune confermato però dalla medicina. Ecco perché Carolina ha pensato fosse giusto intervenire sull’alimentazione offerta ai dipendenti e quindi sulla qualità dell’offerta della mensa aziendale: «Non è stato facile perché da noi ci sono impiegati e operai e a questi ultimi non possiamo mica dare da mangiare un’insalata. Per di più siamo un’azienda a ciclo continuo, lavoriamo cioè anche di notte, e quindi bisogna cambiare i menu a seconda dei turni e degli orari. Inoltre bisogna anche guardare alle linee guida dell’OMS e questo è il motivo per cui ho voluto a tutti i costi inserire la frutta di stagione sia a fine pasto sia come spuntino». Possibilità di avere a disposizione cibi integrali come pane, pasta e riso, utilizzo dell’olio extravergine d’oliva come condimento, meno sale nelle pietanze e almeno un piatto vegetariano al giorno rispondono alle esigenze delle nuove generazioni dei lavoratori, attente a queste tematiche.
Il mondo degli anziani non è rimasto estraneo alle iniziative di ORI Martin anche perché qui c’è un gruppo di pensionati particolarmente attivi: «Li vorremmo coinvolgere nella nostra futura Academy, sia perché sono i depositari di conoscenze che è giusto e bello mettere a disposizione dei lavoratori più giovani sia perché hanno aneddoti veramente pazzeschi sulla storia e le persone di questa azienda. Anzi, li stiamo già “spremendo” sulla figura del nonno perché abbiamo in cantiere un libro su di lui». Tradizionalmente è il Primo Maggio la «Giornata dell’Anziano» in ORI Martin, quando si festeggia chi ha raggiunto i dieci, venti o trent’anni di lavoro. È un momento al quale vengono invitate anche le famiglie dei dipendenti con la possibilità di visitare lo stabilimento, un’esperienza sempre entusiasmante per i bambini. Ma la terza età purtroppo implica anche l’insorgenza dei declini cognitivi che è opportuno intercettare fin dal loro primissimo esordio. Ecco il perché del progetto Train the Brain, indirizzato agli ex dipendenti, che prevede colloqui individuali con un neuropsicologo al fine di valutare e monitorare l’efficienza cognitiva dei partecipanti.
E il mondo femminile? In ORI Martin di donne ce ne sono proprio pochine: il 6-7% dei dipendenti dell’intero Gruppo, valore peraltro allineato con quello delle altre aziende che «trattano» metallo. Ma non è frutto di discriminazione. «Il fatto è – sostiene Carolina – che il mondo dell’acciaio è ancora sinonimo, per come è visto all’esterno, di fabbrica, di luogo brutto, buio, sporco, di lavoro pesante, insomma un ambiente che difficilmente risulta attrattivo per il mondo femminile. Tant’è che quando dico che lavoro in un’acciaieria rimangono tutti a bocca aperta: stupore assoluto. E invece bisognerebbe far capire che qui ci sono moltissimi ruoli, dalla sostenibilità al marketing, al commerciale». C’entra senz’altro anche la radicata diffidenza femminile nei confronti delle materie STEM, un atteggiamento che, secondo Carolina, nasce da stereotipi di genere e preconcetti culturali interiorizzati dalle donne che fa loro dire: non è per me. E che va sradicato fin dai primi anni di scuola: «A settembre inizieremo, insieme all’Associazione Chirone, un progetto destinato agli alunni delle elementari in cui, in maniera giocosa e divertente, spiegheremo che cosa fa un’azienda manifatturiera, che cos’è l’acciaio, dove lo si produce e così via, arrivando a parlare anche della nostra realtà».
«Siamo in poche a lavorare nell’acciaio – continua Carolina – ed è per questo motivo che anni fa ho accolto con entusiasmo l’invito di Francesca Morandi, fondatrice di Siderweb, ad aderire a una community che già dal titolo è un manifesto: Acciaio al femminile. Le prime riunioni sono avvenute su piattaforma perché eravamo al tempo del lockdown, ma fin da subito ho trovato bellissimo potersi confrontare apertamente tra noi, raccontarci le reciproche esperienze, condividere dubbi, chiedere consiglio in un mondo che di norma è molto maschile, “duro e puro”. Anche se le cose stanno un po’ cambiando e oggi non mi capiterebbe più di sentirmi dire, come è accaduto nel corso del mio primo anno in azienda, che sarebbe stato meglio che non fossi io a parlare in un video sul progetto I-Recovery (di cui parleremo a breve ndr) perché non sarei stata credibile». Lo stesso modello Carolina l’ha esportato all’interno del piccolo gruppo di donne dell’azienda promuovendo momenti conviviali, pranzi e colazioni, che sono anche un’occasione per capire eventuali criticità e gestirle in un clima rilassato e amicale: «La prima volta si sono tutte messe in un angolo, si capisce, mi vedevano come l’azionista, un po’ di diffidenza c’era, ma adesso mi danno quasi tutte del tu» e si vede che è contenta di questo nuovo modo di relazionarsi. Merito anche di un’empatia che le viene naturale, ma che per lei è una caratteristica tipica della leadership al femminile: «Noi donne siamo capaci di modificare il nostro approccio a seconda di chi abbiamo davanti, cosa che agli uomini non risulta così facile, anche perché tendono sempre in qualche modo a voler primeggiare e a imporsi. Mio padre è un’eccezione a questa regola, lui non è per niente così»
Va detto che in ORI Martin vige l’assoluta parità di genere in termini di retribuzione e opportunità di carriera, lo smartworking è concesso a entrambi i sessi, sia pure su decisione dei singoli responsabili e a seconda degli ambiti lavorativi, e il cosiddetto «bonus bebè» di 3.000 euro viene erogato a ogni collaboratore o collaboratrice che diventa genitore. Tuttavia Carolina è determinata ad aumentare il numero delle donne in organico e va letta in questa ottica la collaborazione con Women at Business, un’associazione che si prefigge di valorizzare il lavoro femminile e che ha messo a disposizione di ORI Martin la propria piattaforma ricca di ben 7.000 profili di lavoratrici.
La parte Environmental del Bilancio di Sostenibilità di ORI Martin è altrettanto ricca di iniziative e progetti, alcuni dei quali veri e propri fiori all’occhiello dell’azienda. È il caso di I-Recovery che recupera la grande quantità di calore prodotto dall’attività dell’acciaieria convertendolo in vapore che viene immagazzinato e poi trasformato in energia termica da destinare al teleriscaldamento di Brescia oppure, per mezzo di una turbina ORC, in energia elettrica, che in parte è utilizzata dall’azienda stessa e in parte ceduta alla città. E non stiamo parlando di piccoli numeri: con questo progetto che ha richiesto la costruzione di un impianto ad hoc viene coperto durante tutto l’inverno il fabbisogno di calore di ben 2.000 famiglie, mentre d’estate si riforniscono 700 famiglie. Senza dimenticare che così si riduce considerevolmente la dispersione del calore nell’atmosfera. «Questo – dice Carolina – è il nostro modo di pensare alla sostenibilità: fare qualcosa che apporti vantaggi contemporaneamente alla collettività e a noi».
Tra l’altro ad I-Recovery è stato da pochissimo affiancato il progetto Heatleap, che si basa sempre sul recupero del calore, ma dall’acqua dei forni: entrambi i progetti sono stati finanziati dall’Unione Europea e vedono la partecipazione di altre grandi realtà come Tenova, Turboden e A2A.
Al pari di altre aziende «di livello», anche ORI Martin si è data obiettivi sfidanti sul tema della riduzione delle emissioni dei gas serra nell’atmosfera: -30% entro il 2030 con l’obiettivo futuribile di produrre un acciaio totalmente green, cioè a zero emissioni. Le leve per raggiungere questi risultati si basano essenzialmente su una maggiore efficienza energetica dei processi con conseguente riduzione dei consumi di combustibili fossili e di elettricità e la sostituzione progressiva dei primi con soluzioni più ecologiche. Il ricorso a fonti energetiche rinnovabili completa il quadro.
Analoga grande attenzione è posta su tutti i possibili tipi di impatto ambientale: dai rifiuti (le scorie generate durante il processo di fusione del rottame e la scaglia prodotta invece durante il raffreddamento e la laminazione delle billette), che vengono indirizzati a reimpieghi di vario tipo, all’acqua che viene riciclata attraverso impianti di depurazione e ricircolo, alle emissioni di fumi monitorati e gestiti con speciali sistemi di filtri al rumore che viene contenuto da strutture isolanti: «Bisogna anche ricordare che ORI Martin a Brescia è collocata in area residenziale – spiega Carolina – il che ci pone ulteriori scrupoli quando pensiamo al nostro impatto. Proprio per questo abbiamo istituito una procedura di ascolto degli abitanti del quartiere che ci segnalano qualunque problema riconducibile all’attività dello stabilimento in modo che noi si possa intervenire per risolverlo o migliorarlo».
Gli aspetti relativi all’ambiente restano, a parere di Carolina, i più difficili da affrontare, anche sul piano relazionale esterno e interno. Cominciamo dall’esterno, dai clienti: «Riceviamo fortissime pressioni da parte loro che vanno molto al di là delle certificazioni, che abbiamo ma non bastano più. Ci mandano questionari in cui chiedono i nostri piani sulla sostenibilità a cinque e anche dieci anni, e che non sono interlocutori, sono veri e propri impegni che se non rispetti ti fanno depennare dalla lista dei loro fornitori. Il fatto è che alcuni sono veramente demanding, tali da mettere a rischio la nostra competitività oppure obbligarci a cambiamenti drastici in un arco temporale troppo ristretto. Il tema qual è? Che i nostri competitor francesi o tedeschi, che utilizzano ancora il carbone come combustibile, sono facilitati perché è sufficiente che passino al forno elettrico per vedersi dimezzate le emissioni. Per noi invece è molto più complicato. Diciamo che la nostra strada è la concretezza, comunichiamo quelle iniziative che effettivamente riusciremo a “mettere a terra”, non per inseguire i concorrenti».
Riguardo all’interno il problema è trasmettere a tutti i livelli, dal vertice alla base, la cultura della sostenibilità e in un’azienda dalla forte storicità le resistenze possono essere anche molto tenaci: «D’altro canto le persone a volte fanno fatica a comprendere e accettare che si debbano cambiare processi, a volte con strascichi sugli orari, sull’organizzazione, se fino a poco prima questi stessi processi andavano benissimo. Bisogna comunicare e comunicare, spiegare che certi cambiamenti sono per il bene di tutti e magari andare anche a utilizzare degli MBO specifici legati alla sostenibilità».
Nel 2023 Carolina ha vinto il premio She made a difference, un riconoscimento istituito da EWMD – European Women’s Management Development – che dal 2008 ogni anno premia una donna che con la sua professione contribuisce ad abbattere stereotipi e barriere di ogni tipo nei confronti del mondo femminile. La domanda è di prammatica: in che cosa Carolina pensa di aver fatto la differenza? «Sono entrata in azienda senza interpretare ruoli o voler imitare qualcuno, semplicemente con il mio modo di essere. E ho voluto porre la mia attenzione su tanti aspetti, anche piccoli, della quotidianità qui dentro creando un ambiente di lavoro che ritengo oggi più accogliente, più inclusivo e talvolta anche più rispettoso. Noi siamo una S.p.A., dobbiamo produrre, ma il profitto può essere perseguito anche in modo diverso. Ed è quello che cerco di fare tutti i giorni con sforzo e a volta con fatica, ma che mi porta tanta felicità e orgoglio».