Deinfluencing e B2B: si può fare?
In origine ci fu il Verbo. O meglio; in origine ci fu il Content. In origine ci fu il primo influencer che disse qualcosa di influenzante ad un pubblico misto-vario. Che poi lo seguì. Solo che a differenza di Adamo ed Eva o del Big Bang o di qualsiasi altra cosa si voglia credere, il primo influencer non ha un nome. E pensate bene, ancor prima di Chiara Ferragni, Paris Hilton o Clio Makeup. Ma non ci si ferma qui. Dopo un’orda di influenzatori, per citare l’Accademia della Crusca, più o meno quotati, ecco arrivare il sin-influencer. Ovvero la celebrità del peccato. SIN in inglese significa proprio peccato nel senso biblico del termine. E il gioco è facile. Parliamo di quelle figure che fanno tendenza e ispirano migliaia di follower verso azioni negative e peccaminose (per restare nella semantica della parola). E la cosa incredibile è che oltre agli account ufficiali – o presunti tali – di questi sin-influencer spopolano i fake che sfruttano la popolarità dei primi per andare a caccia di like. Ma non finisce qui. Oggi stiamo vivendo una nuova era: quella dei de-influencer. Ora, sempre perché l’etimologia ci piace, come si possa de-influenzare qualcuno è un fenomeno interessante. In realtà la tendenza è leggermente diversa e consiste, di fatto, nel farsi detrattori di un determinato prodotto o brand. Quindi non più “acquistate quel prodotto”, bensì un messaggio contrario “non acquistate quel prodotto perché”.